Bastava tacere. Non mettere sul tavolo dubbi e frustrazioni. Aspettare. Ma si può aspettare quando non si è felici? Lasciarsi a 30 anni, o poco più, è un pugno nello stomaco. Perché le storie a quell’età sono cariche di progetti. E quando finiscono si sgretola anche un pezzo di futuro. Eppure sono tante le coppie che scoppiano a un passo dai passi con la P maiuscola: convivenza, mutuo condiviso, figli, matrimonio. Sono tanti gli uomini e le donne che scelgono di non tacere di fronte a quello che ritengono non funzioni nella loro storia, esponendosi al rischio di interromperla e di trovarsi «single di ritorno». Proprio nell’età in cui gli altri cominciano a costruire.
Simone e Dario non se lo aspettavano. Trent’anni, appena compiuti, il più giovane. Trentadue la sua metà. In nove anni hanno superato tutti gli — ancora inevitabili — ostacoli di un progetto di vita comune tra due omosessuali. Simone ha sentito a un certo punto il peso di un fardello di cui era solo in parte consapevole: «Avevo bisogno di leggerezza, di non avere la percezione di dovermi impegnare per far funzionare le cose. Per essere felice, banalmente». Maria di anni ne ha 29 e fino a qualche mese fa giurava di essere pronta ad avere un figlio con Giacomo, suo convivente da tre anni. «Lui non ne parlava mai e quando si menzionava il matrimonio diceva che non si sarebbe mai sposato. E non ha mai legato con la mia famiglia. Ho capito che avevo bisogno di queste cose per sentirmi davvero felice».
Ma che cos’è questa rivendicazione del diritto a essere felici? Un segno di consapevolezza, un esercizio di onestà di fronte a relazioni poco soddisfacenti oppure solo una fuga dai primi problemi di coppia? Margherita Serpi, presidente dell’Associazione per lo sviluppo psicologico dell’individuo e della comunità di Milano, non ha dubbi: «Oggi le persone hanno molto chiaro di cosa hanno bisogno per stare bene in una relazione. E se un tempo c’era più sudditanza, soprattutto da parte delle donne, oggi sono proprio loro a esplicitare l’insoddisfazione di coppia e ad aprire la fase della crisi». Per Giovanna, 31 anni, è andata così. Il rapporto con Mario, 33, sembrava solido e promettente. Lui però nicchiava sulla convivenza: «Con calma, prima o poi». Frasi che lei non ha più sopportato: «Dopo quattro anni avrei voluto vedere l’entusiasmo per un progetto comune, non la paura di portare la storia a un altro livello». Messo con le spalle al muro, Mario si è defilato. E ora Giovanna si chiede che cosa sarebbe successo se invece di impuntarsi sui suoi bisogni avesse provato ad aspettare.
Fabiola, 33 anni, a convivere ci era già andata. Ma qualcosa con Marco, 36, ha cominciato a incrinarsi quando lei ha trovato un lavoro più impegnativo: la quotidianità ne ha sofferto, lui ha recriminato la sua assenza e lei non si è più sentita sostenuta. Lo ha lasciato dopo 7 anni, tra mille tormenti. «Non lo riconoscevo più, sono stata onesta con me stessa».
Per lo psicologo Matteo Monego dietro a questa «onestà» ci sono in realtà coppie sbagliate in partenza: «Ci si mette insieme con approssimazione. Così non appena l’altro non corrisponde più a quello che ci piace, lo lasciamo. La tendenza è quella di scappare e non mettersi in discussione. Del resto la testa di un trentenne di oggi è quella di un ventenne di quarant’anni fa». O, forse, la testa di qualcuno che ricomincia a pensare con il cuore. E almeno il tentativo non ha età.